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Il messaggio del Vescovo Rosario alla Diocesi “È tempo di fare Pasqua”, scrive mons. Gisana

Il messaggio del Vescovo Rosario alla Diocesi  “È tempo di fare Pasqua”, scrive mons. Gisana

La festa di pasqua è stata per Israele un momento importante della sua relazione con Dio: il passaggio dalla schiavitù d’Egitto al dono della terra di Canaan. Il senso di quest’evento, avvolto nel mistero di un’elezione inaspettata, suggerì ai primi pensatori cristiani l’idea che la pasqua, in virtù del suo significato originario (pesaḥ = passaggio: cfr. Es 12,11), riguardasse un atto di conversione che un credente è chiamato a fare. Il termine greco, che spiega il senso di questo passaggio, è metánoia che vuol dire cambiare il proprio modo di pensare o ragionare. Ogniqualvolta ritrattiamo una decisione o diamo un orientamento nuovo alla nostra esistenza, compiamo un passaggio che implica mutamento.

 

Fare pasqua significa disporsi a cambiare, a compiere passaggi che trasformano, rinnovano, migliorano il corso della vita (comportamento, carattere, relazione). Perché un cambiamento possa incidere sull’esistenza, non basta fermarsi a buoni propositi o a belle intenzioni: la vita cambia se si accettano processi pasquali, forme di cambiamento seri, i cui segni si ravvisano nel modo con cui gli altri percepiscono la nostra presenza. Le relazioni, con le quali intratteniamo le persone, sono infatti sature di chiacchere da cui nascono spesso idiozie che provocano irruenza, aggressività e facile pregiudizio. È giunto il momento di fare pasqua, di fare della vita un tempo di passaggi, propizio e benefico, a partire dal quale impariamo a gustare, oltre alle stupefacenti risorse dell’altro, la bellezza del nostro essere più profondo, quello che i Padri della Chiesa definiscono hypostasis, cioè un modo di essere, nuovo ed essenziale, equivalente a quello voluto da Dio (cfr. Gen 1,26-27). Fare pasqua con il desiderio di spronare il nostro io a passare dalle umilianti schiavitù, a cui è abitualmente soggetto, al dono di libertà, che Dio gli prospetta con le sue visite, significa sperimentare, forse come non mai – così accadde ad Israele – lo stupore dell’avvicendamento del noi fraterno.

Papa Francesco, nella Lettera enciclica Fratelli tutti al n. 35, presagendo quello potrebbe accadere dopo la pandemia, afferma: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare». La scoperta del noi fraterno è superiore all’ammissione dell’altro. Ciò lo fanno intendere i momenti di crisi, vissuti nella consapevolezza che ciascuno resta legato all’altro, nonostante le differenze culturali, religiose o razziali. Il misterioso intreccio dell’interconnessione non spiega a sufficienza il senso dell’appartenenza fraterna. La nostra società è sì collegata da forme di comunicazione, articolate e complesse, le quali però tendono ad illudere il senso di appartenenza: ci si conosce di fatto in una dimensione virtuale, quella dell’etere, ove l’incontro è irreale e la consapevolezza è proiezione di un io inquieto e disilluso. Ci si domanda a che punto è «la coscienza storica, il pensiero critico» – direbbe Papa Francesco in Fratelli tutti al n. 14 – ossia l’assimilazione consapevole di un evento, di fronte al quale, nonostante il virus letale, si rimane cinicamente distanti l’uno dall’altro, pur ammettendo l’importanza che ha la relazione nell’incontro. Si accettano infatti il suo valore e il suo pregio, sovente per principio, faticando ad accogliere le differenze e a capire che la diversità è l’ambito giusto per una piena conoscenza di sé stessi.

Le crisi sono svelamento di una verità: ci apparteniamo nella misura in cui riconosciamo nell’altro il fratello. Il rischio che corriamo, nel perseguire il soddisfacimento degli interessi personali, è l’abbandono del fratello (cfr. Gen 37,12-36), quella forma di uccisione mitica (cfr. Gen 4,8) che esalta sé stessi a scapito sia dell’altro, emarginato ed oppresso, sia dell’io, desolato e confuso, che perde l’occasione di scoprire in chi gli sta davanti la stupefacente rivelazione del noi. La fraternità è un noi annunciato e donato, la cui presenza nella società (famiglia, scuola, parrocchia) è recupero di un io che ha accettato di sottoporsi alle misure purificatrici della pasqua. Passare da uno stato di supponenza a sentimenti di gratitudine e riconoscenza è una delle tante modalità pasquali che dispongono all’attuazione del noi fraterno. A questo bisogna tendere, se vogliamo che la pasqua sia, nonostante la veemenza della pandemia, un incontro con il quale impariamo a stupirci della presenza dell’altro: un incontro, rinnovato dall’impatto con un’alterità prossimale e sollecitato dal desiderio di accogliere in sé stessi la novità di colui che incede verso un noi da ripristinare, forse, fin dalle sue radici relazionali.
Ci aiuta l’apostolo con un’esortazione che sta alla base dell’incontro fraterno: «Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3,27). La rinuncia quotidiana, che il nostro io assume per dare spazio all’edificazione del noi fraterno, non comporta un’esautorazione drastica delle nostre dignità, più o meno acquisite, bensì la costituzione sempre più salda di personalità aperte e solidali. Guardando a Gesù, il cui io è manifestazione, in gesti e parole, di un noi fraterno, comprendiamo che la sua scia di solidarietà, inaugurata con la rivelazione della prossimità del Padre, è l’unica possibile per adempiere a quest’incontro fraterno con l’altro. Solo lui è in grado di proporre questo cammino di fraternità, che nasce dal sacrificio dell’io verso l’edificazione del noi fraterno. Egli infatti ha conosciuto il Padre (cfr. Gv 14,9-10), l’ha rivelato (cfr. Gv 1,18) e, a partire dalle sue scelte, ha insegnato a ricomporre le relazioni in vista di una fraternità che non può prescindere dalla paternità divina (cfr. Lc 15,11-32). È la ragione perché l’apostolo giunge ad un paradosso: «tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28), al di là della razza, cultura o religione. Ciò è possibile – direbbe Crisostomo – perché «avete tutti un solo aspetto, una sola forma, quella di Cristo». Con lui impariamo a fare passaggi, a fare pasqua, impegnandoci in questa stupenda scoperta: colui che incontriamo e con il quale condividiamo questo sprazzo di vita è il fratello che ci introduce, oltre alla verità di noi stessi, al senso di appartenenza comune che passa attraverso l’incontro con la paternità di Dio.

 Rosario Gisana

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