La riforma della burocrazia (parte II): le partecipazioni statali
Come promesso con la nota riguardante la mia proposta di abolire il Senato, oggi ho preso in considerazione il gravissimo danno che giornalmente provocano allo Stato le società a partecipazione statale. Si tratta di uno dei tanti problemi riguardanti la nostra burocrazia, su cui mi sono soffermato più volte, che trovano le mie prime considerazioni fin dal novembre 2013 con articoli pubblicati su diversi giornali on line. Quelli relativi alle società a partecipazione statale sono stati inseriti l’11 novembre 2013 alle pagine 107/110 del primo volume di Cronaca e riflessioni sulla politica italiana e il 14 aprile 2016 alle pagine 46 e 47 del secondo volume.
Si tratta nel complesso di una cinquantina di società con propri Presidenti, direttori generali, corpose dirigenze, consigli di amministrazione e sindacali con particolari prebende che, oltre a fornire nella maggior parte dei casi pessimi servizi, provocano quasi tutte grosse perdite che sistematicamente vengono coperte dallo Stato.
Questo è quello che scrivevo allora::
“ Da un accertamento è risultato che su trenta società partecipate da parte del Ministero dell’Economia, ben venti società risultano a totale partecipazione del suddetto Ministero e solo dieci a partecipazione parziale. E’ risultato, inoltre, che la maggior parte delle trenta società attenzionate gestiscono attività improprie per lo Stato il quale, invece, interviene sempre a coprire le relative grandi perdite di gestione”.
Da decenni si parla di uno studio per realizzare le tanto decantate dismissioni che sistematicamente vengono ostacolate da quell’ alta burocrazia che da sempre cerca di coprire tutte le magagne fatte dai politici: “do ut des”. Allora erano oltre duecento gli alti dirigenti pubblici, in gran parte ricollegabili al ministero del Tesoro, che occupavano con laute extra prebende gli organismi di controllo e di gestione delle società partecipate.
Con quelle note cercai di sottolineare un caso molto particolare denunziato dal Ministro Passera, Governo Monti, che aveva proposto la liquidazione della società ARCUS partecipata al 100% definita “un carrozzone, inutile cassaforte dei beni culturali che fin dalla sua costituzione è stata alla ribalta delle cronache negative, per avere distribuito finanziamenti a pioggia in maniera clientelare”
La società, con dieci dipendenti e con la sede in affitto a Roma in Via Barberini con un canone di diciottomila euro al mese, rimase in vita fino al febbraio 2016, ma non venne liquidata bensì incorporata nella società Ales, sempre una partecipata al 100%, società che negli ultimi anni aveva presentato sempre bilanci in rosso. Avendo approfondito lo studio delle diverse attività gestite, dei risultati conseguiti e dei relativi bilanci, non posso non affermare che gran parte del nostro debito pubblico è da addebitarsi a questo modo disinvolto di operare. Nel 2013 scrivevo che solo la Consip, nata con lo scopo di canalizzare ed armonizzare tutti gli acquisti delle pubbliche amministrazioni poteva svolgere, se bene amministrata, un ruolo di una certa importanza. Il 6 marzo 2017 (pag 72 del 3° volume), ventilata una certa crisi all’interno di questa società scrivevo che trattandosi di una società che era nata con scopi ben precisi la “società necessitava di essere potenziata e suggeriamo oggi di rivedere la sua governance”.
Ma soltanto quattro mesi dopo anche la Consip fu travolta da scandali. La politica dovrebbe recuperare un po’ della perduta dignità, far rivedere a persone serie la reale situazione di tutte le società cosiddette partecipate e cercare di riportare la burocrazia del nostro paese ad un livello di normale serietà, tenendo conto che le società, di cui lo Stato detiene il 100%, del capitale, non possono essere considerate partecipate. Oggi questa seconda puntata: Le partecipazioni statali.
Angiolo Alerci